Lo abbiamo chiesto alla dott.ssa Raffaella Pajalich, endocrinologa, psicoterapeuta e membro del consiglio direttivo della Società Italiana di Medicina Narrativa (SIMeN)
Dott.ssa Maria Luisa Barbarulo: Buongiorno da Maria Luisa Barbarulo nello spazio social di VediamociChiara, oggi è con noi la dottoressa Raffaella Pajalich. Buongiorno Raffaella.
Dott.ssa Raffaella Pajalich: Buongiorno Maria Luisa.
Maria Luisa: Raffaella Pajalich è un’endocrinologa ed è membro del consiglio direttivo della società di Medicina Narrativa. Oggi ho invitato Raffaella qui con noi perché mi piacerebbe parlare con voi di che cos’è la Medicina Narrativa. Quindi la prima domanda che ti faccio è sicuramente questa.
Dott.ssa Raffaella Pajalich: ti ringrazio moltissimo dell’invito e della domanda. La Medicina narrativa è un nuovo e antico paradigma di relazione medico-paziente che mette al centro di quella che è la relazione terapeutica il paziente. Perché questo è stato necessario ridefinirlo? Perché purtroppo o per fortuna negli anni che ci hanno preceduto, e in modo particolare nella seconda metà del secolo scorso fino ad oggi, noi abbiamo avuto un’esplosione enorme di quelle che sono state le competenze tecnologiche, che tanta parte hanno avuto anche nel miglioramento della salute pubblica e nell’allungamento della vita media delle persone (quindi non è assolutamente un disconoscimento per le grandi competenze tecniche che noi abbiamo avuto), però, la percezione di queste competenze tecniche, ha fatto si che i medici (anche infermieri e chiunque interagisca con il paziente) abbiano privilegiato, anche da un punto di vista didattico dell’università, quelle che sono le competenze tecniche scientifiche. In questo modo si è persa quella che è la relazione umanistica, la comunicazione tra il medico e il paziente. Finalmente c’è stata una Consensus Conferences nel 2014 che ha ridefinito quella che oggi noi consideriamo Medicina Narrativa. Ho deciso di leggere la definizione perché voglio essere precisa. “si intende oggi con il termine Medicina Narrativa una metodologia di intervento clinico assistenziale basata su una specifica competenze comunicativa”. Quindi, il focus della questione è la competenza comunicativa che purtroppo è stata sottovalutata e ignorata in quella che è la formazione universitaria. Nello specifico questa Consensus Conference, istituita dall’istituto superiore di sanità, ci dice che: “la narrazione è lo strumento fondamentale per acquisire, comprendere ed integrare i diversi punti di vista di quanti intervengono nella malattia e nel processo di cura”.
Perché è così importante? Perché per una volta la nostra bella lingua italiana ha un solo termine per definire la malattia, che è appunto “malattia”. In realtà, gli anglosassoni, secondo la definizione di un antropologo che si chiama Artur Kleinman, hanno già da molto tempo identificato più sfaccettature della malattia. C’è sicuramente il termine “desease”, che definisce quello che noi studiamo all’università, cioè tutta quella che è la classificazione delle malattie, tutte quelle che sono le caratteristiche tecniche. La classificazione che ha generalizzato la malattia che per noi è molto utile per fare una diagnosi e ripeto, nessuno la vuole disconoscere e che viene definita oggigiorno la cosiddetta Evidenced based Medicine, la medicina basata sull’evidenza. Però c’è una parte della malattia che gli anglosassoni hanno acquisito e che noi stiamo acquisendo, che definiscono con il termine “illness”. Perché è così importante? perché dentro l’illness c’è il vissuto del paziente. Cosa significa per quello specifico paziente, in quel momento della sua vita, quella malattia? Ebbene, noi siamo dei tecnici sicuramente, noi siamo esperti del desease, e dobbiamo esserlo, mentre il paziente è esperto dell’”illness”; queste due competenze si devono incontrare durante la relazione terapeutica; ad esempio, durante la raccolta dell’anamnesi. Noi possiamo mettere le nostre conoscenze tecnico-scientifiche, il paziente ci deve raccontare la sua esperienza della sua specifica malattia.
Tutta questa comunicazione e scambio di informazioni, non è solo un recepire dati di laboratorio, ma è veramente uno scambio comunicativo che presuppone, in modo assoluto, che ci sia una competenza comunicativa. Noi oggi la possiamo definire una competenza narrativa, capacità di ascolto, come se l’ascolto sia una forma di lettura. Ebbene, noi riteniamo che questo si possa imparare e potenziare attraverso le arti e in modo particolare attraverso la letteratura. Ci sono quelle che vengono definite le cosiddette Medical Humanities, che può essere la musica, le arti visive; io amo molto la letteratura e quindi ritengo che essa in particolare possa davvero essere uno strumento di conoscenza e di competenza per i medici e per gli infermieri perché insegna varie cose che purtroppo solo una competenza scientifica non riesce a darci. Ad esempio, ci insegna i grandi temi della vita. Noi pensiamo, come appassionati di Medicina Narrativa, che forse leggere determinati libri, che parlino non solo di malattia ma anche degli eventi di vita degli esseri umani, come la grande letteratura, possa aiutare. Nessuno vuole che il medico diventi un esperto Prussiano, però che si possa esercitare da un lato nei grandi temi della vita: la nascita, l’accudimento dei figli, l’invecchiamento e la morte; e dall’altro che impari a leggere un testo. Se noi facciamo esperienze di lettura, probabilmente, saremo poi degli ascoltatori migliori, oltre ad esercitare un’altra competenza che non è affatto spontanea (può esserlo come può non esserlo) che è l’empatia. C’è l’idea che l’empatia si possa potenziare e si possa imparare.
Io non credo affatto che i medici siano carenti di empatia, non avrebbero fatto questa scelta di aiuto dell’altro, ma che alle volte un eccesso di empatia possa portare ad un distacco. Dobbiamo imparare a modulare questa empatia e renderla razionale; ebbene, la conoscenza di se stessi, anche tramite la letteratura, la musica (che direttamente ci suscita delle emozioni), la conoscenza personale del medico riguardo a se stesso, ci può dare degli strumenti in modo tale che davanti al paziente arrivino delle persone più competenti umanamente, più competenti all’ascolto attento e rispettoso dell’altro. Io ritengo che a livello universitario ci dovrebbe essere un insegnamento o di Medical Humanities o addirittura di Medicina Narrativa.
Maria Luisa: Questo senz’altro, anche perché magari, attraverso lo studio di testi, possiamo anche comprendere quelle sfumature semantiche che il paziente può trasferire e, avendo una pienezza di linguaggio, probabilmente, riusciamo ad assorbire meglio quelle che possono essere le sfumature comunicative.
Dott.ssa Raffaella Pajalich: proprio come dici tu. La raccolta dell’anamnesi non è una semplice trascrizione, è sempre un’attribuzione di significato, una meta narrazione, è un ascoltare una narrazione e trascriverla. In tutto questo, dobbiamo capire bene quello che il paziente ci sta dicendo, e siamo noi che lo dobbiamo capire perché non possiamo allenare ogni paziente a parlare. È ovvio che la persona che percepisce l’anamnesi deve essere attrezzata e perlomeno dobbiamo provare a educarla a questo. Un’altra cosa interessantissima è che se ci pensi la visita medica è riportare una narrazione ad uno scritto, una polifonia di eventi, perché c’è la parola del paziente, ci sono segni e sintomi fisici, c’è qualcosa che il corpo esprime che noi dobbiamo imparare a leggere e sempre riportare in parole (è qualcosa che il corpo che la mente neanche sa forse) e il dato clinico e anche la lettura di analisi che sono numeri e la lettura di immagini. È un testo completamente diverso, costituito da almeno quattro caratteristiche diverse, che si deve tradurre in narrazione che è un termine che viene abusato viene anche odiato da taluni, e io invece lo amo perché mi sembra molto utile. C’è un lavoro di traduzione che il medico impara a fare così sul campo ma nessuno glielo ha mai insegnato. Una formazione narrativa e umanistica, la cosiddetta narrativa based medicine, insieme alla evidence based medicine, devono essere unite. Quando noi le uniremo non avremo più bisogno di definire la Medicina Narrativa perché lo sarà nei fatti. Non servirà più chiamarla narrativa perché la medicina, d’ufficio, comprenderà l’accoglienza dell’altro. Un buon medico deve essere un comunicatore e deve essere una persona che pratichi un ascolto attento rispettoso e capace.
Maria Luisa: Certo. A questo proposito mi vengono in mente i famosi medici di campagna. Nella mia famiglia io sono nipote di un vecchio medico condotto che conosceva vita morte e miracoli del paziente, perché conosceva i genitori, i figli ecc. Quindi, sicuramente, era più semplice entrare in sintonia, perché c’era una relazione che durava da tanto tempo; e poi avere il quadro di tutta la famiglia, probabilmente, aiutava nella relazione.
Dott.ssa Raffaella Pajalich: ma infatti io all’inizio ti dicevo che è un paradigma nuovo ma, in realtà, è un recuperare un paradigmatico antico. C’è stato tanto da imparare. Quando io ho fatto l’università l’epatite C veniva ancora definita non A e non B. Secondo me noi siamo stati travolti dal dato tecnico, che necessariamente abbiamo dovuto recepire, il quale ci ha tanto aiutato. I nostri nonni non avevano l’ecografia, non avevano la risonanza, quindi, parlavano o capivano parlando e usavano le mani. Oggi noi siamo in grado di applicare tutto quello che abbiamo imparato e questa è una conditio sine qua non; non possiamo certo rimetterci solo a parlare dobbiamo avere gli strumenti che hanno allungato l’età media; però è il momento di fermarsi a riflettere, di riprendere quelle competenze umanistiche.
Ricordo perfettamente il motivo per cui scelsi medicina. Volevo il contatto umano con le persone che però ripeto deve avere una base tecnica perché lasciato demandato alla comunicativa del singolo, potrebbe non essere efficace.
Maria Luisa: anch’io starei con te a parlare per ore di questi temi perché mi sembrano importantissimi e sono certa che anche a chi ci sta seguendo in questo momento sicuramente affascinino. Volevo chiederti: abbiamo parlato di che cos’è la Medicina Narrativa adesso dimmi che cosa non è, così aiutiamo anche le nostre utenti a capire esattamente in che ambito ci stiamo muovendo.
Dott.ssa Raffaella Pajalich: allora, cosa non è? non è una nuova branca della medicina, non è come la cardiologia o l’endocrinologia. Non vuole esserlo. Non è dare una terapia, per quanto esista la biblioterapia; non è neanche psicoterapia. Non è questo. È focalizzare l’attenzione sulla competenza narrativa, sulla capacità comunicativa. Altra cosa che non è, o meglio non è solo, non è parlare di medicina, sarebbe riduttivo e sarebbe anche un po’ inutile se vogliamo. La Medicina Narrativa può essere fatta anche senza scrivere necessariamente di malattia; può andar bene leggere qualunque libro perché abbiamo detto che con la letteratura o anche con le arti in genere, noi sviluppiamo queste competenze comunicative. Quindi se dovessi dire cosa non è, non è guarire con i libri, assolutamente no; non è curarsi da soli ma è potenziare la relazione medico paziente, in modo che sia qualitativamente superiore, attraverso la narrazione che si può e si deve imparare.
Maria Luisa: noi ti ringraziamo per essere stata qui con noi per averci chiarito questo tema che è così importante se ne dibatte ne parla tanto quindi mi sembrava giusto fare un punto con le nostre utenti anche su questo probabilmente siamo dilungati un po’ di più di quello che sono abituati a fare ma il tema lo richiedeva e ci rivedremo in occasione di una prossima intervista Ciao Raffaella Ciao grazie a tutti grazie a tutti grazie per averci seguito. Ciao!
Redazione VediamociChiara
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Take Home Message – Medicina Narrativa
Che cos’è la medicina narrativa? Lo abbiamo chiesto alla dott.ssa Raffaella Pajalich, endocrinologa, psicoterapeuta e membro del consiglio direttivo della Società di Medicina Narrativa.
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Ultimo aggiornamento: 1 luglio 2022
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