Li vedevo tutti i giorni, andando a lavoro.
Aspettavano di entrare a scuola seduti sui gradini di un portone. Io, seduta in macchina ferma al semaforo ho iniziato a spiarli, a volte da qualche posizione indietro, di lontano, spesso dalla prima fila.
La prima volta che li ho notati lei gli stava facendo vedere qualcosa sullo schermo del cellulare. Lui era vicinissimo a lei, le due guance che si sfioravano. Ho sentito nel mio petto il cuore di lei battere forte. La mano che teneva il telefono iniziare a sudare come le mie che stavano afferrando il volante.
Avevano l’espressione divertita. Poi lui è scoppiato in una gran risata, ha inarcato la schiena e piegato il collo all’indietro. Lei, ridendo, l’ha guardato a lungo e poi si è sistemata i capelli dietro l’orecchio. Anche io sono scoppiata a ridere, della loro gioia, della loro bellezza. Lui le ha preso il cellulare per vedere nuovamente e sarei rimasta anch’io ad ammirarli per sempre, ma il clacson furioso di quello dietro mi ha risvegliata sulla luce verde del semaforo e ho dovuto in fretta ingranare la marcia e partire.
Durante alcuni mesi, seduta in macchina ferma a quel semaforo, li ho visti dividere qualcosa da mangiare e parlare dolcemente, li ho visti accarezzarsi il viso e le braccia. Ho visto lui cingerle le spalle col braccio e lei con la testa appoggiata sul suo petto. Ho visto lui stringerle le mani e guardarla negli occhi. Li ho visti abbracciati e poi baciarsi con passione, con quella intensità che esclude con forza qualsiasi altra cosa, che non lascia spazio a nessun altro e spinge tutto il mondo al di fuori.
Ho visto lei piangere tra le braccia di lui e una volta lui arrabbiato, furioso, dare un calcio allo zaino mentre lei cercava di calmarlo.
La maggior parte delle volte li ho visti ridere complici, scherzare, prendersi in giro per poi tornare a stringersi, lei dopo aver sistemato i capelli dietro le orecchie e lui dopo essersi sistemato gli occhiali sul naso. Li ho visti pensierosi e silenziosi, semplicemente appoggiati schiena al portone con le dita della mano intrecciate.
Un giorno, però, li ho visti seduti leggermente distanti, ognuno con gli occhi persi nello schermo del proprio cellulare. Una giornata grigia, che minacciava pioggia.
E poi li ho visti litigare, lui seduto e lei in piedi, lui che si toglieva gli occhiali e si asciugava le lacrime, lei rossa in faccia sistemandosi nervosamente i capelli dietro l’orecchio.
Qualche giorno dopo l’ho visto seduto da solo. Digitava rapidamente sul cellulare. Poi si è sistemato gli occhiali sul naso e ha guardato di lato, come attratto da qualcosa.
Poi quei gradini sono rimasti vuoti, giorno dopo giorno, anonimi e grigi. Potevo sentirne la pietra dura e fredda. Quello spazio improvvisamente deserto ha reso le mie attese al semaforo infinite, dolorose e le mie giornate malinconiche.
Un giorno di sole di inizio primavera ho parcheggiato la macchina poco oltre il semaforo e mi sono seduta su quei gradini. Li ho accarezzati con la mano, ho osservato la pietra porosa di cui erano fatti, la loro forma, la sporcizia incrostata.
Poi ho immaginato di vedere con gli occhi lei e di lui, di ascoltare le loro risate e mi sono sentita incredibilmente viva.
Ho guardato in fondo alla strada e mi è sembrato di vederli venire, mano nella mano, sorridendo.
Milena Martin per Redazione VediamociChiara
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